Abraham
"Boolie" Yehoshua (Gerusalemme 19 dicembre 1936) è uno scrittore, drammaturgo
e accademico israeliano. E’ nato a Gerusalemme in una famiglia d'origine
sefardita e vive ad Haifa nella cui università insegna Letteratura comparata e
Letteratura ebraica. Suo padre, Yaakov Yehoshua, era uno storico, specializzato
nella storia di Gerusalemme, mentre sua madre, Malka Rosilio, era giunta dal
Marocco nel 1932. Yehoshua è stato sposato con Rivka, psicanalista specializzata
in psicologia clinica, morta nel 2016. Ha
una figlia, due figli e sei nipoti.
Dopo aver servito nell'esercito dal 1954 al 1957,
Yehoshua ha studiato alla scuola Tikhonaime e si è laureato in
Letteratura ebraica e Filosofia all’Università Ebraica di Gerusalemme. Ha
incominciato a scrivere appena finito il servizio militare e ha pubblicato il
suo primo libro, una raccolta di racconti, Mot Hazaken (La morte del
vecchio), nel 1962. Ha avuto incarichi come professore esterno nelle Università
di Harvard, Chicago e Princeton. Nel 2003 gli è stato conferito il Premio
Letterario Internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa per La sposa
liberata. Ha vissuto a Parigi per quattro anni, dal 1963 al 1967,
lì ha insegnato e ha ricoperto anche l'incarico di Segretario Generale
dell'Unione Mondiale degli Studenti Ebrei. I temi principali del pensiero e
dell'opera di Yehoshua sono: la questione del rapporto tra popoli diversi, che
hanno religioni e culture differenti, i rapporti familiari e l'amore coniugale,
che non essendo fondato su un legame di sangue deve essere continuamente rimesso
in gioco. Yehoshua viene spesso definito il simbolo della complessità
ebraica: sentimenti amorosi, religione e fede, ideologia politica e routine
quotidiana costituiscono un unicum nei suoi scritti e tutto ciò si trova
sempre ben contestualizzato nella dimensione storica dello Stato d'Israele e
nel mondo ebraico.
Trama
Zvi Luria, stimato dirigente in pensione
dei Percorsi d’Israele uomo esemplare per buon senso, professionalità, rigore
nel lavoro, pazienza e generosità nei rapporti con la sua famiglia amatissima,
inizia a perdere le informazioni essenziali. Queste “vagano nella sua mente
come un pesciolino nero”, incapaci di trovare un’uscita e quindi neanche il
cellulare nel deserto del Negev, il controllo di un SUV, la strada di casa e,
improvvisamente, anche quella di un’esistenza sino a quel momento appagante. Inizia a
proiettare l’immagine della moglie Dina – pediatra di 64 anni, premurosa e
decisa nei loro 48 anni di matrimonio – in donne più giovani che sono sue
inquietanti e fascinose sosia e che a loro volta si moltiplicano e dissolvono
in fantasmi femminili del passato. Donne che iniziano a parlare con la suadente
voce femminile del navigatore, con l’accento coreano o giapponese incluso. Zvi Luria inizia a confondere Mosé con Giosué –
cosa grave, anche per un ebreo non ortodosso – e a sbagliare: dimentica di
prendere il nipote all’uscita dell’asilo, gli acquisti del supermercato, il
codice dell’antifurto e come si accendono i fari, la stanza dell’amico
all’ospedale, le porte. E poi dimentica che la Giulietta di Gounod
bisogna ascoltarla seduti in platea, non finire dietro le quinte per metterla
in guardia dall’errore fatale. E dimentica, in
particolare, i nomi. Fagocitati dall’atrofia del lobo frontale destro, si
volatizzano prima dei cognomi, eppure vengono perentoriamente richiesti, magari
da tenaci ex-amanti rancorose, e finiscono scritti sul palmo della mano, come
accade al nonno di Oskar in Molto forte, incredibilmente vicino.
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